Noi volevamo non parlarne più, ma poi, come la muffa, di tanto in tanto rispunta: ecco Ilaria Cecot in 10 capitoli
C’era una volta una principessa della sinistra radical chic, nata tra le brume del Friuli e cresciuta a pane e salame di Morgante, spritz e proletariato. Dopo anni di silenzio, apprezzatissimo silenzio, lei è tornata. Dove? A Monfalcone. A fare cosa? A candidarsi, ovviamente. Perché la vera vocazione di Ilaria Cecot non è lavorare, ma candidarsi. È una chiamata interiore, come quella dei santi. O dei dementi.
CAPITOLO I – Assessore sì, ma con calma (che alle nove è ancora presto)
Erano quei bei tempi in cui Gorizia era ancora una provincia e non un meme, e Ilaria Cecot – all’epoca ancora militante entusiasta di Sinistra Ecologia e Libertà – veniva messa a fare l’assessore al lavoro e al welfare e a qualcos’altro. Tutto grazie al buon Kuore (con la KAPPA di Kompagno) del suo amico, estimatore e santo patrono Gherghetta, allora presidente proprio di quella provincia che, la carissima (perché xe costada ‘ssai) Debbborah SerRACCHIAni, ha voluto demolire per far “pandan“ con ciò che ha fatto con la sanità e l’industria della sedia.
L’orario di ufficio sarebbe partito alle 9 del mattino. Ma Ilaria, fiera paladina dell’autodeterminazione del corpo e della mente, decideva che il corpo suo si autodeterminava ad arrivare verso le 10. Con calma. Caffettino, chiacchiere, poi magari una mezzoretta di lavoro (se per lavoro intendiamo rispondere ai messaggi su Facebook), e poi, dopo mezz’ora sudatissima, via al bar alle 11 per il vero impegno della giornata: lo spritz.
Perché la vera missione di Ilaria non era lavorare. No. Era esistere in quanto concetto politico, come una scultura astratta di latta che però urla slogan e posta selfie col filtro “rivoluzione permanente”.
CAPITOLO II – La tendopoli che commosse… nessuno
Durante il suo mandato, la Cecot pensò bene di lasciare il segno. E come lo fece? Con un’idea geniale: una tendopoli per migranti in centro a Gorizia. Perché, dove metterli se non proprio lì, tra un Duomo, una gelateria, una scuola e un condominio?
I cittadini ringraziarono. Con le bestemmie.
Lei invece si sentiva una novella Madre Teresa in versione trap: “Io do voce a chi non ce l’ha!” diceva, mentre sistemava le tende in favor di fotocamera per racimolare l’ennesima comparsata su qualche testata. Si diceva persino pronta ad accoglierli a casa sua. Poi però niente, c’erano dei problemi di condominio. E di coinquilini. E di pulizie.
CAPITOLO III – “Ti amo, ma solo se mi metti in prima pagina”
Il mondo della politica è spietato. Quello dell’informazione pure. Ma Ilaria, da stratega sopraffina, trovò una soluzione: “Accoppiarsi” con un redattore del IL PICCOLO. Un’operazione romantica degna di un film di Ozpetek, ma con la trama di un porno a budget ridotto.
Grazie a questa liaison torbida, la nostra eroina riusciva a piazzare articoli su articoli. Ogni battaglia diventava notizia: dalla tendopoli in mezzo alle case alla marcia a piedi scalzi in pieno centro passando per gli appelli per mettere il cous cous nella mensa scolastica.
Poi, come tutte le storie d’amore costruite sull’ipocrisia e la necessità di visibilità, anche quella finì. E con essa finì anche la sua eco mediatica e il suo equilibrio. Ma non il suo ego, quello non muore mai.
CAPITOLO IV – Il rifiuto universale: da Casapound a Mago Merlino
Nel 2017, reduce da una carriera politica tanto intensa quanto inutile, Ilaria tentò l’impossibile: farsi candidare di nuovo. Dove? A Gorizia, ovvio. Da chi? Da chiunque. Il problema? Non la voleva un cazzo di nessuno. Neanche Andrea Picco in quel “Forum” che tanto rispecchiava gli ideali della furibonda da Romans.
Non si fece schifo nemmeno quando tentò di avvicinare persino Casapound, pur di strappare una candidatura. Probabilmente pensando: “Se converto un fascista, vale doppio!”
Alla fine, solo uno mostrò compassione: Federico Portelli, suo ex collega di giunta, che ebbe un attacco acuto di buonkuore e la infilò in una delle liste che lo sostenevano come si infila un gatto randagio in macchina durante una tempesta.
Lei, per ringraziare, gli devastò le liste… le avvelenò. Le riempì di estremisti da centro sociale, militanti col passamontagna, attivisti che consideravano Che Guevara un moderato. Fu come invitare Greta Thunberg al barbecue di qualche americano obeso durante il Super Bowl.
CAPITOLO V – La lista fai-da-te: della serie “Il Titanic era meglio”
Cacciata anche da Portelli, decise che bastava coi compromessi: si candidava da sola! Una lista tirata su all’ultimo momento, con gente pescata su Facebook, nei centri sociali e nei bar di periferia. Il programma elettorale era scritto sul retro di un manifesto di propaganda del circolo “Romans Per Stalin”, le proposte erano copiate da un opuscolo di Lotta Continua del 1975.
Il risultato fu spettacolare: un’ecatombe di voti. Meno di quelli che riceve una catena su WhatsApp. Meno di quelli che prende un neofascista in Groenlandia. Gli elettori scappavano come di fronte a un controllore sul treno quando sei senza biglietto.
E lei? Colpa degli altri. Dei traditori. Degli amici. Degli informatori. Dei giornali. Della NATO. Di Beppe Grillo. Del destino cinico e baro. Di chiunque, tranne che SUA.
CAPITOLO VI – Il Medio, Le Serpentade e Gradospia: da grandi amici ad infidi nemici
Furiosa col mondo, la nostra Ilaria cominciò a fare ciò che le riesce meglio: frignare. Poi accusare. Poi minacciare. Poi denunciare. In quest’ordine.
Secondo lei, tutti dovevano sostenerla. Anche chi faceva informazione satirica, tipo Il Medio. Che lei aveva aiutato a fondare, pensa un po’. E da cui, quindi, pretendeva fedeltà cieca e “leccaculismo” totale. Tipo setta.
Quando non otteneva il supporto richiesto, partivano le accuse: “Mi attaccano perché sono donna!”, “Mi sabotano perché difendo i deboli!”, “È tutto un gombloddo dei poteri forti!”
La ciliegina sulla torta? La denuncia contro i suoi ex amici; Il Medio, Le Serpentade e Gradospia. Ma il giudice, dopo cinque minuti, ha capito la situazione e l’ha spedita affettuosamente affanculo, con tanto di motivazione definitiva. Per non parlare di quando è andata a piangere da Giletti: pareva felice come Rita Da Roccarasa in un idromassaggio di salsicce e friarielli ma con la lacrima (FINTA) sempre in tasca. Peccato che, mentre lei frignava in diretta TV, al povero conduttore arrivavano messaggi e articoli che la sbugiardavano. Tanto che il tempo della sua “ospitata” è stato ridotto del 99%.
CAPITOLO VII – Rieccola a Monfalcone: l’eterno ritorno della sinistra vintage
Ed eccoci al presente. Come il realizzarsi delle peggiori minacce dei più minacciosi minacciatori, LEI è tornata. Questa volta a Monfalcone. In una lista civica contro Luca Fasan, prestanome designato di Anna Maria Cisin: la ex sindaco, ora europarlamentare, volto televisivo, macchina da guerra elettorale da 70%, Mrs Dea Khalì della Lega con 72 braccia e zero pazienza.
Ilaria, evidentemente in cerca di luce riflessa, rispolvera una tattica vecchia come… lei: abbaiare contro uno importante con la speranza che le risponda per raccogliere un minimo di considerazione. Come tattica vuole, eccola vomitare merdate ad alzo zero contro EuroAnna con post, interviste, commenti e meme. Purtroppo per lei, tra loro, la differenza di statura politica è la stessa che c’è tra Godzilla sotto steroidi e lo spermatozoo di un geco liofilizzato.
La Cisint vola tra Bruxelles e Roma. La Cecot commenta isterica nei gruppi Facebook, la Cisint appare sui teleschermi nazionali un giorno si e un giorno anche, la Cecot deve mendicare uno spazio da Andrea Sessa (e qua caliamo il sipario) E quando non viene considerata, fa quello che le riesce meglio: la vittima. “Mi oscurano! Mi censurano! Mi ammazzo!“
CAPITOLO VIII – Bambini, sedetevi: cantiamo “Bella Ciao”
Eravamo tutti contenti, la nostra Ilaria è andata a lavorare; in fin dei conti, le bollette si pagano, il frigo va riempito, gli anni son passati e quelli disposti ad offrirle gli spritz cominciano a scarseggiare. Con spirito di sacrificio degno di un partigiano che esce dai cespugli quando arrivano gli americani, si adegua e va a fare la maestra: OK… magari perde più tempo ad insegnare “Bella Ciao” che la matematica, ma almeno se ne stava fuori dalle palle e non ci frantumava i coglioni con la sua retorica da circolo comunista degli anni ’60.
CAPITOLO IX – L’epilogo già scritto: i bisiacchi già sà!!!
E quindi, quando eravamo già tutti tranquilli e pacifici, convinti che il capitolo Cecot fosse bello che chiuso ed archiviato, arriva lui; Diego Moretti, quello che non ha fatto una minkia negli ultimi 30 anni, fankazzista professionista, regionale per grazia di Dio, che, raschiando il fondo del barile per riempire le liste monfalconesi, pesca proprio lei, e la infila tra un talebano e una nostalgica della mazurka alla Festa Dell’Unità a fine Agosto.
La nota dolente, fortemente preoccupante, è che, come ben sa chi ben la conosce – e noi la conosciamo BESTEMMIA CENSURATA – si è convinta di potercela fare. Sogna seggi, mozioni, interventi sui migranti, prime pagine su IL PICCOLO grazie alla sua mozione per abolire il presepe e sostituirlo con un murale di Pablo Hasél.
Ma anche i monfalconesi la conoscono. E i monfalconesi hanno già dato.
E se anche, per miracolo, entrasse in consiglio, sappiamo già come andrebbe: assente al 98%, presente solo per fare scenate, lanciare accuse, difendere l’indifendibile e magari trasformare l’aula in un centro sociale occupato.
CAPITOLO X – Più che una candidata, un avvertimento
Ilaria Cecot è il simbolo perfetto della sinistra da lounge bar che si è persa tra un aperitivo e una NOSTALGIA. La reincarnazione di tutto ciò che la politica NON dovrebbe essere: autoreferenziale, inconcludente, melodrammatica, vittimista, incapace e dannosa.
La sua candidatura a Monfalcone è come una pizza con l’ananas: te la vendono come fosse innovazione pura, ma alla fine fa solo cagare.